“Alfredino”. Se la memoria è in un brivido

di Antonio Errico
domenica 13 Giugno 2021
 – Nuovo Quotidiano di Puglia

Era una tempesta di calura umida, untuosa, quella sera di giugno di quarant’anni fa, e c’era un’ansia e poi c’era una paura che quella storia finisse come non poteva finire: come non doveva finire. La foto di un bambino con il sorriso grande quanto l’orizzonte che s’immaginava alle sue spalle, andava e veniva dallo schermo del televisore. Ventuno milioni di persone avevano lo sguardo affondato in quello schermo. Forse ognuno pregava a modo suo. Ognuno sperava a modo suo. C’era un bambino incastrato in un pozzo a trentasei mesi di profondità. Aveva sei anni. Si chiamava Alfredino. L’incidente di Vermicino era la notizia di chiusura del telegiornale delle 13.30 dell’undici di giugno. Durante il servizio qualcuno disse che il bambino stava per essere salvato. Allora Emilio Fede, che dirigeva il tg, decise di andare avanti. La diretta durò per tre giorni. Quello che è accaduto dopo lo sanno tutti. Lo sanno tutti coloro che allora c’erano e lo sanno anche coloro che allora non c’erano. Perché la storia di Alfredino Rampi è memoria collettiva. E’ un simbolo delle tragedie del moderno. La rappresentazione di un dolore privato che si trasforma in dolore di tutti, in passione, sentimento, emozione di tutti.

Tante cose sono accadute nei quarant’anni che sono passati. Tragedie come quella di Alfredino. Ma molte di esse le abbiamo dimenticate proprio per il fatto che non sono diventate memoria collettiva, non si sono trasformate in simbolo e rappresentazione che si ripropongono attraverso la narrazione. Probabilmente la trasformazione in simbolo e rappresentazione è stata determinata proprio dalla narrazione di quella diretta di tre giorni, dal coinvolgimento emotivo che si alimentava con l’alternarsi delle fasi, l’accendersi improvviso e l’improvviso spegnersi delle speranze, dalla tensione, dalla presenza di un personaggio come Sandro Pertini, lì, ai bordi del pozzo.

La realtà della tragedia trovava nella narrazione la possibilità di fissarsi nella memoria e soprattutto di riproporsi in una successiva narrazione. È con questo costante riproporsi che la tragedia è diventata memoria collettiva.

Un’altra condizione essenziale delle modalità con le quali in quella diretta si sviluppava la narrazione, è quella dell’attesa ansiosa. Non vorrei definirla suspense, intesa come espediente narrativo. Ma proprio attesa ansiosa. Mentre si assisteva a quelle scene, mentre si ascoltavano le voci a volte concitate, a volte pacate dalla rassegnazione, mentre dal pozzo risalivano i respiri del bambino, dentro ciascuno di coloro che se ne stavano inchiodati davanti al televisore, si ingrossavano onde d’ansia, di terrore che da un istante all’altro potesse finire nel mondo in cui nessuno voleva che finisse. Si avvertiva il terrore che non si potesse avere più speranza. Alfredino era l’oggetto vero e vivo di una speranza. Era il soggetto di una narrazione nella quale il protagonista non era personaggio ma persona che invocava aiuto, e quanto più si faceva silenziosa quell’invocazione tanto più cresceva il terrore.

Splendidi sono stati gli anni Ottanta. Ma sono cominciati con quella tragedia del loro principio che ha ne costantemente offuscato lo splendore.

Quella morte di un bambino raccontata con immagini e parole mentre si manifestava, si sviluppava, accadeva terribilmente, andava ad incidersi nella sostanza della memoria. Quelli che allora avevano vent’anni, per esempio, associano le immagini dei loro vent’anni anche alla memoria di quel bambino. Accade la stessa cosa per chi ne aveva trenta, per chi ne aveva quaranta ed ha ancora il privilegio di ricordare. Nessuno ha dimenticato. Si è dimenticato altro, molto altro, probabilmente, come si diceva. Ma nessuno ha dimenticato la tragedia di Alfredino raccontata per tre giorni, ininterrottamente.  

Certo, per quella narrazione si pagò un prezzo altissimo. Ha detto Piero Badaloni che “quando qualcuno decise di mandare in onda il dialogo tra la mamma e Alfredino che si trovava giù nel pozzo… in quel momento si superò una misura che non doveva essere superata”.

È vero. Ma forse fu per quel prezzo altissimo che fu pagato, fu per quella misura dolorosamente superata, che la storia di Alfredino è diventata memoria soggettiva e collettiva, simbolo e rappresentazione.

Oggi possiamo dire quanto è costato non fermarsi ad un certo punto, oltrepassare la soglia del dolore privato, superare la misura che non doveva essere superata.Ma non possiamo dire quanto sarebbe costato se quella misura non fosse stata superata. Si potrebbe anche ipotizzare che Alfredino non sarebbe diventato memoria di tutti e di ciascuno. Oggi basta un nome. Basta soltanto pronunciare il nome di Alfredino e non c’è bisogno di aggiungere nient’altro. Ci si ricongiunge a quella storia e anche alla propria storia e si ricostruiscono le due storie, e a volte sembra anche di riprovare l’attesa ansiosa di quelle sere, di quelle notti, soltanto pronunciando il nome di Alfredino.

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