Tra i molti libri che ha scritto Antonio Prete, non ce n’è nemmeno uno, che sia saggio, poesia o narrazione, in cui non si manifesti la condizione del nostos, del ritorno. Qui. A Sud del Sud. Può accadere in una pagina, una riga, una parola, un’allusione, un riferimento rapido, un’evocazione. Ma accade, in ogni libro. Accade con la memoria di un volto, di una voce, con il richiamo a un odore, un sapore d’infanzia. Non saprei quale libro di Antonio Prete suggerire. Mi verrebbe da dire così: prendetene uno qualunque. A caso. Come capita. Se volete fermatevi sul Convito delle stagioni. Poesia ( con dieci brevi prose): che attraversa il territorio dei ricordi, i tempi come sono stati e a volte come sono, i luoghi come sono stati e i loro mutamenti. E’ poesia dei ritorni, che in questo libro si realizzano attraverso quel linguaggio profondo, quel dialetto con il quale sono scritte alcune delle poesie. Il dialetto è il linguaggio che Prete riconosce come codice genetico, come espressione insostituibile delle ragioni e dei sentimenti sostanziali. Ma soprattutto: è il linguaggio che riconosce colui che lo parla. Ne identifica l’origine, la provenienza, la natura intima. E’ il lessico con il quale si traduce l’essenziale. Poi il libro dice di luoghi vicini e lontani. Di paesaggi, occasioni. Soprattutto dice del tempo e delle creature che nel tempo vengono e vanno, lasciando a chi resta il ricordo di quello che sono state. Prete le rivede, le ritrova nella lontananza che si restringe e le riconfigura, le fa rassomiglianti a com’erano, le restituisce ai loro luoghi: una casa rosa, il roseto di fronte al nespolo, la vigna, i ficodindia, il mandorlo. Tutto accade nel giorno senza tempo di un’assenza, in un punto che non è riva e non è scoglio, che non ha nessuna forma, non ha nessuna luce.
Ma sempre di ritorni dice il Convito delle stagioni. Di certi ritorni che sono apparizioni, a volte aspettate, che a volte invece sopraggiungono improvvise, per raccontare qualcosa con una lingua silenziosa, a fare compagnia discreta, affettuosa. Non dicono niente. Ascoltano. Vogliono sapere com’è che gira il tempo dei sopravvissuti, anche se già lo sanno, perché sanno tutto. Però vogliono sentire il racconto. Vogliono ritornare a vivere in una poesia. Sono assenza che la parola trasforma in presenza. Rispondono al comando – anzi, alla preghiera – del veni foras. Ecco. La parola che compie il miracolo della resurrezione. Anzi, no. La parola che si illude di compiere il miracolo della resurrezione. Perché è davvero soltanto un’illusione: una consapevole ma necessaria illusione.
Molti libri ha scritto Antonio Prete, si diceva. Ma ce n’è uno che non scriverà mai: che non potrà scrivere mai. Che nessuno potrà scrivere mai. E’ un libro che ha il vento nelle sillabe, la musica del mare nelle vocali. Nelle pagine ha profili di volti, tra le righe ha gli odori di un paese, tra le parole il suono della lontananza. Comincia con una parola che è anteriore alla prima parola; ha la riserva di una parola che arriva sempre dopo l’ultima parola, ha una lingua innamorata di tutte le altre lingue, costellazioni nella sua punteggiatura. Un libro mai cominciato. Un libro per sempre incompiuto. Prete non scriverà mai un libro così. Nessuna scriverà mai un libro così. Ritorna alla memoria il finale della Lettera di Lord Chandos in cui Hugo von Hofmannsthal dice che la lingua in cui gli potrebbe essere concesso non solo di scrivere ma anche di pensare, non è il latino, né l’inglese, né lo spagnolo, né l’italiano, ma quella lingua di cui non conosce una sola parola, quella in cui le cose gli si manifestano e con la quale, un giorno, cercherà di rispondere ad un giudice sconosciuto.
Convito delle stagioni, lo si deve leggere dalla prima all’ultima poesia. Comprese le note. Perché da una nota si può comprendere che cosa siano la generosità, la solidarietà, l’altruismo nella loro concretezza, nella loro essenzialità. Per esempio: nella nota n. 100 si dice che secondo una tradizione raccolta nel Talmud, dopo la mietitura si usava lasciare ai margini del campo un covone, apparentemente abbandonato ma in realtà destinato a chi non aveva pane per nutrirsi. Essere per l’altro, incontrarsi con l’altro, soltanto con un gesto, un dono che forse non si saprà mai chi lo ha lasciato, che forse non si saprà mai chi lo ha ricevuto. Chissà se poi, dopo tutte le parole e alla fine di ogni conto, non si stringe nel gesto di un dono tutta la consistenza della poesia.