È il sogno della vetta il primato dei grandi campioni

di Antonio Errico
domenica 8 Ottobre 2023
 – Nuovo Quotidiano di Puglia

Allora uno si domanda quanto sia importante, veramente, nella sostanza delle cose, se Reinhold Messner abbia raggiunto oppure no la vetta dell’Annapurna, se a quegli ottomila metri ne sia mancato uno, per esempio, se dietro quella roccia ce ne fosse un’altra più alta un palmo. Uno se lo domanda adesso che Guinness World Records gli ha tolto il primato. Allora uno si domanda se quello che importa, veramente, non sia il fatto che Messner abbia scalato, abbia respirato quell’aria, sprofondato lo sguardo in fondo a quell’orizzonte. Uno si domanda se quello che importa essenzialmente sia raggiungere la vetta oppure sognare di arrivarci, e poi tentare la scalata. Andando in alto con umiltà, con ambizione ma senza arroganza, con tenacia e sacrificio ma senza sfida, per vedere com’è il paesaggio da lassù, per poter dire a se stesso: sono arrivato dove ho potuto. Per misurare le proprie forze, non per stabilire un primato. Messner dice di non aver mai rivendicato nessun record per cui non gli possono disconoscere nulla. Poi dice che le montagne cambiano, che sono passati quasi quarant’anni anni, e la montagna è cambiata. Di certo c’è che sull’Annapurna sono saliti lui e Hans Kammerlander. Basta questo. Basta il fatto che ci sono arrivati. Poi magari mancava un metro, un centimetro, un palmo. Ma a quell’altezza che importanza ha.  Mi farebbe piacere chiedere a Reinhold Messner se per un minuto, un minuto soltanto, gli siano passati per la mente quei versi di Giovanni Pascoli che dicono così: “Salgo; e non salgo, no, per discendere, / per udir crosci di mani, simili/a ghiaia che frangano, / io, io, che sentii la valanga;/ma per restare là dov’ è ottimo restar, / sul puro limpido culmine”. Non ha mai rivendicato nessun record, Messner. Non ha voluto crosci di mani. Dice semplicemente che quando lui e Hans scalarono una parete interminabile e difficilissima dell’Annapurna, infuriava una tempesta.   Adesso Messner ha quasi ottant’anni. Mi farebbe piacere chiedergli se qualche volta gli gira per la testa quella canzone straordinaria in cui Francesco Guccini racconta   di uno scrittore di storia, geografia e varia umanità, di quel viaggiatore instancabile che si chiamava Hendrik Willem van Loon.
Che cosa importa se per quella vetta mancava un metro, un palmo.

Dice Hans Kammerlander, con serenità, che non esiste la certezza assoluta d’essere arrivati all’ultimo centimetro di quella vetta. Erano altri tempi. Non c’era gps, e poi l’alpinismo non è uno sport, e quindi non esistono competizioni e vincitori.

Forse l’avventura degli ottomila metri è qualcosa di più, di molto di più di un primato. È una metafora dell’esistenza. Si arriva al punto in cui si può arrivare. Ci si ferma al punto in cui ci si deve fermare. A volte manca qualcosa per arrivare al punto che esaudisce il desiderio, che realizza il sogno di una vita. Ma le cose vanno così.

Un’altra storia di montagne e scalatori: quella di Cesare Maestri.  È morto a 92 anni, il 19 gennaio del 2021. Lo chiamavano “Il ragno delle Dolomiti”. Scalava montagne a mani nude come un ragno si muove sul muro. Negli ultimi tempi camminava con il girello. Uno che azzannava la roccia, camminava con il girello. Si è campioni se si sa accettare questo. Dipendeva dagli altri, Cesare Maestri. Uno che scalava in solitaria, dipendeva dagli altri. Si è campioni se si sa accettare questo. Parlava a fatica. Dalla sua casa a Madonna di Campiglio, guardava la montagna, da lontano. Perché quella roccia con la quale il suo corpo si confondeva, si era fatta lontana lontana. Un ricordo senza nostalgia. In un’intervista a “Repubblica” diceva che l’alpinismo gli aveva insegnato a vivere, che il suo ricordo gli insegnava a morire. Si è campioni quando si sa fare così, quando si sa immedesimarsi con le stagioni. Si è campioni quando si sa comprendere il proprio tempo. Si è campioni quando si capisce, non quando si vince.

A volte Cesare Maestri si domandava che cosa avesse fatto per così tanto tempo. Se facendo il conto di tutto non si fosse arrampicato sul niente. Questo si chiedeva, uno che gettava nel vuoto la corda prima di scendere da pareti di sesto grado. Lo faceva quando era giovane, forte, bello. Se lo chiedeva quand’era vecchio, fragile, brutto. Se lo chiedeva mentre faceva ginnastica contro la ringhiera delle scale di casa. Se lo chiedeva e si rispondeva che la sua impresa era vivere con dignità fino alla fine. La sua impresa era fare cinquanta metri aggrappato al girello per arrivare al supermercato. Ecco: si è campioni quando si accetta questa impresa: che non si può comparare con la conquista di qualsiasi altissima vertiginosa vetta. Diceva che la vecchiaia richiede più coraggio della gioventù, perché l’impresa di sopravvivere non la sponsorizza nessuno. Non si è campioni quando si vince. Si è campioni se si resta se stessi quando non si può vincere più. Se si comprende che il traguardo più ambizioso, quello che ti consegna un incomparabile trofeo, è la luce del giorno che arriva. Tutto il resto è vanità che non serve.Però, quando si capisce questo, si smette di essere campioni soltanto per diventare grandi campioni.

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