Scriveva per colmare il vuoto di lettura; inventava da sé le storie per potersele raccontare.
Ci sono scrittori per i quali tra la vita e la letteratura si stabilisce una relazione di inestricabile interdipendenza: scrivono quello che vivono e vivono per scrivere, anche se non sempre riportano sopra un foglio le storie e le passioni di ogni istante, gli amori e i dolori di tutte le stagioni, i sogni ad occhi aperti e chiusi, le voci che ascoltano per strada, i volti che intravedono a un incrocio, le figure di un ricordo, i fantasmi che si affollano nelle ore dell’insonnia. Anzi, quello che materialmente scrivono non è altro che una sintesi essenziale, una quintessenza, una rifrazione, un’espressione simbolica, l’esito di una lunga elaborazione. Rina Durante era una scrittrice così.
Se n’è andata nella notte tra il 25 e il 26 di dicembre del 2004.
Aveva scritto “Il Tramontana”, “ La Malapianta” “Gli amorosi sensi” – ; una montagna di articoli per i giornali; lavori per il cinema e il teatro; studi di antropologia; ricerche sulla condizione di questa terra e della sua gente ( come quella pubblicata da Besa e curata dal suo amico Massimo Melillo, con il titolo de “ L’oro del Salento”) nella sua isola di Saseno. Fu lì, in quell’isola senza scuola, in quel silenzio, che Rina Durante avvertì la necessità della scrittura. Fu dopo che aveva letto e riletto le nozioni di geografia e di scienze, i racconti e le poesie del sussidiario avuto in regalo, quando non ebbe più storie da leggere, che cominciò a scrivere. Scriveva per colmare il vuoto di lettura; inventava da sé le storie per potersele raccontare. Questo disse in una essenziale autobiografia intellettuale scritta per un’antologia pubblicata dalla Direzione Didattica di Aradeo, intitolata “ Le foglie e la radice”. “Gli amorosi sensi” uscì nello stesso mese dello stesso anno del mio “Favolerie”, con lo stesso editore, Piero Manni.
Si andava per le librerie di Lecce, una sera dell’aprile del novantasei, Rina Durante e io.
Belle -diceva la Rina- queste “Favolerie”. Però mettetele sotto il bancone).
Diceva, Rina Durante, che raccontare significa dare, legittimare, riconoscere l’esistenza.
Citando Rilke sosteneva che l’aspirazione di uno scrittore è – dev’essere – quella di turbare l’universo.
Ma chi ha una tale idea della letteratura, chi ha la pretesa assurda e innocente di turbare l’universo che, per natura e per fortuna, ignora l’artificio delle parole, è una creatura che, in ogni attimo , cerca il modo di farsi turbare dal mistero meraviglioso dell’ universo. La scrittura è la narrazione di questo continuo, stordente e stuporoso turbamento, che talvolta si manifesta con l’esplosione della parola, talvolta con l’implosione del silenzio.
Chi vive la scrittura in questa dimensione di profondità esistenziale, non riesce in alcun modo a pensare a successi editoriali, a circuiti di mercato, alla letteratura come prodotto. Pensa la scrittura come un processo, come pensa al processo della vita, al processo dell’universo.
Rina Durante pensò in questa maniera, confrontandosi soltanto con il continuo procedere della sua scrittura, che coincideva, si sovrapponeva, si confondeva con il procedere dei suoi giorni, che tentava di rubare un riflesso di universo, per poterlo raccontare.