La voce forte e leggera dei classici nel rumore dell’attualità

di Antonio Errico
domenica 5 Febbraio 2023
 – Nuovo Quotidiano di Puglia

Il tempo che attraversiamo molte volte è così: distratto. Per cui si ha l’impressione che sia inutile, che sia anacronistico, tutto quello che richiede o provoca una riflessione, un approfondimento, un pensiero ulteriore; tutto quello che in qualche modo sospinge a un confronto con se stessi, con la propria visione del mondo, con le certezze, le convinzioni, con la storia, con i suoi fondamentali insegnamenti. Allora di tanto in tanto si sostiene che non serva leggere i classici, per esempio. Nel tempo distratto e rapidissimo e vertiginoso, non serve cercare una risposta alle domande che greci e latini hanno scagliato come pietra di fionda sull’umano e sul divino, sull’identità e sulle relazioni tra gli uomini, sull’eterno e il transeunte. Quelle opere appartengono a un tempo irrimediabilmente concluso. Così si dice. Ma non solo di greci e latini. Si dice la stessa cosa anche di autori del Novecento, italiani, stranieri. Come se i paesaggi culturali che gradualmente si vanno componendo, come se le crisi e le contraddizioni che ci coinvolgono, non fossero già stati visti e descritti da Svevo e da Pirandello, da Joyce e Virginia Woolf, da Kafka e da Camus. Poi i poeti: Montale, Luzi, Caproni, Gozzano, Sereni, Ungaretti; poi Lorca, Eliot, Kavafis, Lee Masters, Dickinson, Milosz. Molti altri, ovviamente. Ma di tanto in tanto si sostiene che leggere i classici non serva. Quei libri in cui pulsano innumerevoli anime, che provengono da ogni tempo e da ogni luogo, che appartengono ad esistenze conosciute o sconosciute, vive o concluse, anonime o famigerate, viziose e virtuose, altere o meschine, nel tempo distratto non servono, non servono più. Però bisogna anche dirsi che non leggendoli qualcosa si perde. Magari si perde la profondità dei concetti, molta possibilità di una relazione autentica con se stessi. Perché probabilmente aveva ragione Italo Calvino quando diceva che “il tuo classico è quello che non può esserti indifferente e che ti serve per definire te stesso in rapporto e magari in contrasto con lui”. Ecco. Forse i classici servono a scongiurare o almeno a sfumare l’indifferenza, a non lasciarsi soltanto sfiorare dagli accadimenti senza la tensione alla scoperta dei significati che portano, a non fermarsi sulla soglia degli eventi esistenziali, sociali, culturali senza esplorare i territori che si stendono al di là della soglia.

Ci sono quelli che leggono e rileggono lo stesso libro per anni e anni. Lo leggono da giovani, da adulti, da vecchi.Qualche volta di quel libro leggono anche solo una poesia, anche un solo verso, una solo passo di prosa, il profilo di un personaggio, una descrizione. Perché in quel verso, in quel passo di prosa trovano il senso del loro essere in quell’istante, nel luogo in cui sono, nel modo in cui sono.

Ho conosciuto una persona, una volta, che ogni mattina leggeva quel verso di Leopardi che fa così: “Altro dirti non vo”: da quando a tredici anni in un’aula di scuola media aveva incontrato quel verso, lo leggeva e lo rileggeva ogni mattina. In quel verso c’era tutta la sua ansia nei confronti del futuro ma anche la serenità derivante dalla consapevolezza dell’incognita custodita dal futuro.

Probabilmente un classico è questa possibilità di rispecchiamento. Uno sguardo rivolto al passato e un pensiero verso il futuro. Una trasparenza d’onda leggera e una profondità. Probabilmente un classico è un pensiero non distratto che irrompe nella distrazione del tempo e di quella distrazione provoca la crisi. È un pensiero attratto dall’essenzialità delle cose e delle storie, dalla loro sostanza, dalla consistenza che hanno in rapporto all’autenticità dell’esistenza. Allora forse sarebbe opportuno domandarsi se questo tempo distratto ha necessità di un pensiero ugualmente distratto e superficiale oppure di un pensiero attento, attratto dai significati che sono a fondamento dell’essere con se stesso, con gli altri.

Forse occorre domandarsi questo prima di chiedersi se nel tempo che viviamo i classici servono ancora o non servono più, se hanno ancora ragione e funzione, se quei testi trovano ancora un senso negli attuali contesti sociali e culturali costantemente mutanti, sempre più complessi. Sempre più distratti.

La risposta alla seconda domanda dipende da quella che si dà alla prima, dal tipo di pensiero che si intende adottare, dal metodo con cui si intende decodificare e interpretare la condizione della realtà e anche la dimensione dell’irreale, del fantastico, dell’immaginario.

Ancora Calvino: è imprescindibile. Dice: “È classico ciò che tende a relegare l’attualità al rango di rumore di fondo, ma nello stesso tempo di questo rumore di fondo non può fare a meno.
È classico ciò che persiste come rumore di fondo anche là dove l’attualità più incompatibile fa da padrona”.Allora, e ancora per esempio: è nel rumore di fondo dell’attualità che si insinua la voce forte e leggera di Omero e Virgilio, oppure di Dante, Ariosto, Manzoni. Non per dissipare il rumore, di cui hanno bisogno, ma per rendere più comprensibile quello che il rumore avvolge e confonde. Per rendere più compatibile con l’attualità l’esperienza di esistere.

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