Piero Manni e il suo Salento dalle “millanta facce”

di Antonio Errico
domenica 15 Maggio 2022
 – Nuovo Quotidiano di Puglia

Avrei potuto scrivere di Millanta facce anche leggendo soltanto gli inediti che contiene: perché tutto il resto lo ricordavo perfettamente. Invece dopo le prime cinquanta pagine ho continuato a leggere, ritrovando quel racconto intitolato L’inverno del Diciotto che rappresenta la perfezione della forma. In tutto: nel ritmo, nel lessico, nella costruzione della frase, nell’articolazione dei tempi della narrazione, nella tristezza che lo attraversa per intero ma che nel principio e nel finale si fa pacato struggimento. Ho continuato a leggere, dunque, arrivando fino in fondo, fino a quelle pagine di lucidissima malinconia, che dicono di tutta la saggezza che ci vuole, per vivere, e morire.

Quella di Piero Manni è una scrittura di passioni e di ragioni. Le passioni hanno radici affondate nel già visto, già sentito, in quello che è stato pensato, sofferto, amato. Nelle illusioni, nelle delusioni. Le passioni appartengono alla memoria, alla dimensione intima, profonda, a quello che gli accade dentro e che conforma la sua visione del mondo e della vita. Le ragioni riguardano i giorni che vive, uno dopo l’altro, uno alla volta e una volta per sempre, coinvolgono quello che gli accade intorno, che qualche volta lo entusiasma, qualche volta lo sconforta, qualche volta lo consola. Poi c’è quello in cui crede; poi ci sono le idee, che sono ad uno stesso tempo passione e ragione senza che dell’una e dell’altra si riconoscano i confini, senza che tra l’una e l’altra si faccia differenza. Quello in cui crede Piero Manni si può chiamare impegno civile, per esempio. Oppure si può chiamare solidarietà, partecipazione, responsabilità, etica, valore. Quello che ha scritto Piero Manni coincide perfettamente, gioiosamente, dolorosamente, con quello che è stato, con i suoi sogni ad occhi aperti e i suoi astratti furori, con i sentimenti, le emozioni, le commozioni che cercava comunque di celare per una coerenza con il suo essere intellettuale dal pensiero complesso, sistematico, analitico, disincantato.  

Ma quando scrive Piero Manni ha la nitida consapevolezza che soltanto alla scrittura deve dar conto, che la scrittura pretende la sua vita. Quando scrive lo fa perché l’infanzia nottetempo gli bussa ai vetri della finestra, e domanda e comanda di essere raccontata proprio in quel momento, senza differimenti, senza esitazioni. Allora volti antichi si radunano intorno alla finestra, rivendicano la loro appartenenza alla memoria, si portano dietro le loro storie. 

La narrazione di Piero Manni trova i suoi motivi e i suoi moventi prevalentemente in due condizioni. La prima è quella della memoria: il riaffiorare di un’atmosfera, di un odore, un sapore, una fisionomia d’uomo, una scena. Il frammento di un’esistenza. Una nostalgia. Un rimpianto. Un confronto con il tempo di dentro e con quello che gli gira intorno. Una domanda sul senso che hanno le storie di ciascuno, che ha la Storia di tutti.

Al confronto con il proprio tempo e con il tempo della Storia si annoda la seconda condizione, che è costituita dalla visione del mondo, dal fitto tessuto ideologico che avvolge, accorda, configura, connota e sostanzia ogni movimento della narrazione. Ma, soprattutto, è dalla visione del mondo che si genera il linguaggio di cui hanno detto con affettuosa e precisa argomentazione Carlo D’Amicis e Antonio Prete nei loro contributi che chiudono “Millanta facce”. Da quella visione proviene la sovrapposizione dei nessi logici, la disarticolazione sintattica, la deviazione improvvisa dal percorso cronologico, il ritmo che ad un punto si impenna e a quello successivo va in picchiata, l’interruzione della trama, come se improvvisamente gli si spalancasse davanti un vuoto e con la scrittura non potesse fare altro che scaraventare lo sguardo nel buio di quel vuoto.

Ma si apre davvero un vuoto nella visione del mondo di Piero Manni, ad un certo punto. Accade quando assume consistenza di senso la scomparsa di quell’ universo contadino, metaforizzato nel luogo mentale del Salento, dove tutto accade per una condizione di apparente fatalità, dove tutto diventa misura di una dimensione del vivere, e del morire. Allora la scrittura si ritrova a confrontarsi con il razionale e l’irrazionale, con l’eterno e il transeunte, con la realtà e la fantasticheria, con la religione e la superstizione, l’immaginario individuale e collettivo. 

In quel vuoto galleggiano immagini che hanno perso ogni concretezza, figure che convergono in una struttura testuale che rimescola il sacro e il profano, impasta musicalità, antropologia, memoria, storia, ritorno all’esperienza del tempo e a tutto quello che il tempo comporta: le verità, le menzogne, gli amori, i disamori, le leggerezze, le stravaganze, le tenerezze, le ferite. Le paure.

Nel corso del suo raccontare, Piero Manni prende sempre, esplicitamente, posizione. Rifiuta ogni neutralità, mette a disposizione elementi per l’analisi e la formulazione di giudizio. Assume la funzione del testimone, di colui che c’era e quindi può riferire com’è stato quel mondo, può consentirsi la possibilità e il rammarico del confronto.Avrei potuto scrivere di “Millanta facce” anche leggendo soltanto gli inediti che contiene. Il resto lo ricordavo tutto alla perfezione. Ma se avessi fatto così, se non avessi approfittato della possibilità di attraversare il territorio della sua opera per come si distende in questo libro, non avrei potuto avere cognizione di quello che è stato il cominciare e il maturare di tutta la sua storia di uomo e di intellettuale.

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