Il 12 dicembre del 1975, nel discorso per il Nobel, Eugenio Montale si chiese se fosse ancora possibile la poesia in un mondo nel quale il benessere è assimilabile alla disperazione e l’arte, ormai diventata bene di consumo, ha perso la sua essenza primaria. Poi ricordò di essere stato bibliotecario, traduttore, critico letterario e musicale, ma che si ritrovava lì, in quella Accademia, per quel premio che rappresentava il riconoscimento che il mondo gli tributava, semplicemente perché aveva scritto poesie, “un prodotto assolutamente inutile, ma quasi mai nocivo”. Se la poesia serva a qualcosa ed eventualmente a che cosa, è una domanda a cui probabilmente i poeti veri hanno rinunciato. Ma accade che, ancora, ci si chieda: a cosa serve la poesia. La prima risposta che viene è questa: a niente. E’ una cosa inutile com’ è inutile un notturno di Chopin, una figura di Caravaggio, una pietà di Michelangelo. Allora la poesia non è altro che un gioco. Quello di una bambina che gioca con le bambole: bambole di pezza, bambole che si muovono, bambole che si amano. Quello di un bambino che gioca col trenino, con le spade di latta, con la fionda senza pietra. Quello di un uomo che gioca con la vita. La bambina vede la bambola così come le appare. Il bambino vede il suo giocatolo così come gli appare. Anche l’uomo vede i suoi giorni così come gli appaiono. Poi a un certo punto la bambina si domanda perché la bambola non parla; il bambino vuole capire com’è fatto il suo giocattolo, e l’uomo vuole scoprire il gioco dei suoi giorni, delle loro storie. E’ a quel punto che comincia la poesia. Quando si vuole capire che cosa ci sia dentro le cose a monte e a valle del tempo che ci è stato prestato. Quando si vuole scrutare il fondo per scoprire quali meraviglie e quali misteri nasconde, quando si vuole andare al di là dell’apparenza fino a giungere all’essenza e al lievito della sostanza. La poesia comincia nel punto in cui le parole che di solito pronunciamo si rivelano banali o comunque inadeguate, quando non riescono ad esprimere il nostro rapporto con gli esseri e le cose, con le esperienze, con le esistenze con cui ci confrontiamo, di cui abbiamo bisogno di stringere il senso, di comprendere la trama, di svelare l’intreccio. Ma la prima esperienza, la prima esistenza con cui ci confrontiamo, di cui vogliamo capire il senso, la trama, l’intreccio, è la nostra stessa vita: piccola storia tra tante altre piccole storie. Allora la poesia non serve ad altro che a comprendere se stesso e gli altri che ci sono intorno, quelli che sono venuti prima e forse anche quelli che verranno dopo, che sono un po’ diversi da noi, che un po’ ci rassomigliano. Ecco: a questo solo serve la poesia: a guardare dentro le cose, nell’esistenza delle creature. Per quanto dura. Poi la bambina torna a giocare con le sue bambole. Il bambino con il suo trenino ( si usano ancora i trenini? No? Come no? Ridate il trenino ai bambini). L’uomo ritorna al gioco con i suoi giorni: un gioco a volte bello, a volte meno bello, certe altre volte un po’ noioso. A questo soltanto serve la poesia. A poco, in fondo. Però per quel poco, servono necessariamente le parole, che hanno la consistenza di un fiato, di un vapore, ma che durano di più – tanto di più – di qualsiasi altra cosa. Anche dell’amore.