In un’esistenza impastata di scrittura, prima o poi viene sempre il tempo che le parole rassomigliano alle rughe, prendono la stessa natura dei dolori, hanno il sorriso delle gioie vissute, diventano come i colori delle stagioni, come i sapori che hanno i ricordi, si fanno esperienza bellezza passione, assorbono il ritmo di una preghiera silenziosa, di un canto sommesso, di una speranza segreta. Così è il libro di Roberto Vecchioni che esce per Einaudi in questi giorni con il titolo “Tra il silenzio e il tuono”. Centosettantuno pagine di vita vera, concreta. Sua. Uno sprofondamento della memoria. Un transito dentro i giorni che vengono e che vanno. Uno sguardo fiondato all’orizzonte. Tutto quello che accade intorno, che accade dentro, si strige nelle frasi, nelle parole. Non vorrei dire di che cosa parla Vecchioni in questo libro. Forse sarebbe semplice. (Forse). Forse la struttura non è complessa. (Forse). Ma ci sono libri che non sopportano sinossi. Questo libro non la sopporterebbe. Si deve leggere. Perché nel libro c’è tutto quell’uomo che ha valicato gli ottanta, che ha visto acqua tumultuosa passare sotto i ponti, ma che guarda ancora il mondo con lo stupore di un’infanzia, che guarda negli occhi il tempo con la razionalità fantasiosa del poeta, che si entusiasma per la bellezza delle creature, che si indigna per la bruttezza dell’ignavia, che non nasconde sotto il mantello nessun amore. Nel libro c’è l’intellettuale lucidissimo e il sognatore ad occhi aperti e chiusi. Ci sono i suoi dolori senza rimedio e i suoi fantasmi buoni e i suoi sbalordimenti e le illusioni, le delusioni. C’è Roberto e c’è Vecchioni: uno dei migliori cantautori d’Europa, che da quarant’anni sale e scende dai palchi ma che ogni volta ha paura, anche se sa che quelle generazioni che lo stanno a sentire gli vogliono bene. Forse è proprio per questo che ha paura. Tra parentesi: la sera dell’antivigilia di Capodanno del 2013, al concerto di Vecchioni, a Otranto, c’erano quattro amici: due donne, due uomini. Uno si chiama(va)Renato. Poi, una notte, Renato se n’è andato, e gli altri tre senza Renato Moro ai concerti di Vecchioni non hanno voluto andarci più. Chiusa parentesi.
“Tra il silenzio e il tuono”, allora. C’è tutto Roberto Vecchioni in questo libro. Con la sua sensibilità affiorante, con il suo buttarsi nella mischia della vita, con la sua memoria e gli incantesimi delle sue parole.
In questo libro c’è l’uomo che scrive le pagine 163 e 164. No, non si può fare una sinossi. E’ un libro che dice l’amore. Non dell’amore, ma l’amore, nei suoi innumerevoli riverberi. L’amore per i figli, per Daria, la sua donna, l’amore per il tempo, per i ricordi, per gli amici, per i libri, per le storie, per i poeti, per i racconti, le parole, le canzoni, per la letteratura greca, per la letteratura senza aggettivi. In fondo Roberto non ha scritto altro che l’amore. Da sempre. Di quell’amore che si cerca per tutta la vita o che travolge all’improvviso, che matura, si trasforma, diventa diverso da com’era il giorno prima, l’istante prima. L’amore che si impara. Come in una canzone: “Io l’ho imparato l’amore/Cammina nel tempo ed e tutt’altra cosa/ Non è tempesta e furore/ È la donna che aspetta sulla porta di casa”.
L’amore è il motivo e il movente di tutte le sue storie, dell’ansia che hanno dentro, di quella tensione per lo svelamento degli innumerevoli volti che la vita nasconde, di tutte le continue domande che non hanno risposte, di ogni realtà e di ogni fantasia, di tutte le serenità e di tutti gli astratti furori. Vecchioni è attratto dal riflesso, dall’ombra, dalle storie inventate e dalla Storia reale che si sostanzia di gesti consueti, vicende quotidiane, destini collettivi e personali, vittorie e sconfitte, inaspettate occasioni.
Poi, mentre si attraversa questo libro, di tanto in tanto si sorride, anche. Di tanto in tanto si sorride. Per esempio durante quella splendida lezione su cosa pensava Achille mentre Patroclo era fuori a combattere con le sue armi. Non su cosa pensava Achille secondo Omero. Ma su cosa pensava e basta. Dopo quarantasette righe c’è la risposta. Però io non la dico.
Ci sono libri che quando li finisci di leggere ti lasciano esattamente come ti avevano trovato. Ce ne sono altri che quando li finisci di leggere ti rendi conto che hanno cambiato una parte del tuo modo di pensare la vita. Ecco, quando finisci di leggere “Tra il silenzio e il tuono”, ti accorgi che è cambiata una parte del tuo modo di pensare la vita. Ma non è la prima volta. Con Vecchioni accade sempre così, anche con le canzoni. Ancora un esempio: chiunque intenda in qualche modo e per qualsiasi ragione occuparsi di Giacomo Leopardi, soprattutto dell’ultimo Leopardi, non potrà fare a meno di confrontarsi con il suo testamento: quello che ha scritto Vecchioni ne “L’infinito”. Non potrà fare a meno di considerare tutta quella delicatezza e tutta quella robustezza che percorrono i versi, che si condensano nelle parole, con quel rovesciamento delle prospettive, con il carico enorme di emozione e di commozione, con la stanchezza del dolore, il desiderio di vivere oppure soltanto l’ansia di sopravvivere ancora.
“Il silenzio e il tuono”, dunque. Ovvero della profondità raffinatamente combinata con una scrittura che costituisce un’esemplare applicazione di quella categoria della leggerezza che Italo Calvino teorizzò nelle “Lezioni americane”.Quando sono arrivato alla fine del libro, ho incontrato la meraviglia di quelle due pagine intitolate “A me stesso”. A quel punto ho avuto l’impressione di aver capito a chi sono indirizzate le cinquantatre lettere che lo compongono. Ma quei libri di cui non si può fare una sinossi, sono gli stessi di cui non si può dare una sola interpretazione. I significati di questo libro di Vecchioni sono l’esito di un incontro tra colui che lo ha scritto e colui che lo legge, di una prossimità o di una reciprocità di sentimenti, di passioni.