“Credevo che non sarei mai arrivato in tempo”. “C’è ancora qualche minuto”. “Ho sentito la radio”. Anche per te ci sono novità”. “E’ una giornata di molte novità, per me e per te”. “Bene”. “E adesso?”. “Adesso dovrebbe cominciare una storia nuova”. “E questa?”. “Questa è finita”. “Finita finita?”. “Finita finita”. “La scriverà qualcuno?”. “Non so, penso di no. L’importante non era scriverla, l’importante era provarne un sentimento”.
Atlante occidentale di Daniele Del Giudice finisce con questo dialogo.
Daniele se n’è andato giovedì scorso, a settantadue anni. Viveva in una casa di cura a Venezia, assediato dall’Alzheimer.
Forse non ricordava più nulla di sé, nulla della sua vita.
Forse non ricordava di aver raccontato qualcosa, una volta. Oppure ricordava di aver raccontato qualcosa ma a quell’aver raccontato non dava nessuna importanza. Forse, se ricordava, dava un’inconscia importanza vitale ad una sensazione, un’emozione, una percezione, un trasalimento, un brivido. Dava un’inconscia importanza soltanto allo sfilacciato ricordo di un sentimento. Tutto il resto, tutte le pagine che aveva scritto, le sue storie, i suoi personaggi, si erano fatti infinitamente lontani. Era soltanto quella scaglia di inconsapevole memoria di vita vera che lo teneva in piedi.
Eppure, quel dialogo conclusivo di Atlante occidentale, oppure la pagina di un altro qualsiasi dei suoi romanzi, o una frase sola, o una parola sola, il più marginale personaggio al quale ha dato un’esistenza d’inchiostro, avranno più vita di quella che ha avuto il suo corpo.
Una beffa. Una lusinga. Una disperazione. Una consolazione. Una ricompensa. Forse ogni racconto che si fa, è tutto questo insieme: beffa lusinga disperazione consolazione ricompensa. Tutto questo insieme e altro ancora, molto altro ancora; a volte, spesso, indipendentemente dal rapporto che ciascuno ha con il proprio racconto.
Daniele Del Giudice sapeva perfettamente che scrivere è difficile, che scrivere costa fatica e fa paura. Lo ha detto nelle bellissime righe che aprono una racconta di saggi intitolata In questa luce.
Se non ci si vuole accontentare del primo pensiero che passa, della prima immagine che arriva, della prima parola, della prima frase, del primo personaggio che spande la sua ombra sul foglio, del primo luogo che vuole essere narrato, se non ci si vuole accontentare di se stessi, scrivere è difficile, costa fatica e fa paura. Se non si vuole riporre nessuna fiducia nel periodo che scivola leggero, nella frase morbida, nella modulazione armoniosa, se si pretende che per ogni parola non ci sia possibilità di sostituzione, che nessuna frase abbia possibilità di formulazione alternativa, che nessun periodo possa essere articolato in maniera diversa, scrivere è difficile, costa una tremenda fatica.
La storia è finita, dice il finale del romanzo, e probabilmente non ci sarà nessuno che penserà di scriverla. Ma scriverla non è importante; l’importante è averla vissuta, averne provato il sentimento.
La parola storia può essere sostituita con quella di vita: un sinonimo. Allora si può anche dire che raccontare la vita non è importante, che è importante, essenziale, viverla, provare nei suoi confronti un sentimento e assaporare quel sentimento.
A volte ci si ritrova a dover scegliere tra l’esistenza e la scrittura, a meno che non si riesca a creare una condizione di coincidenza.
Qualche volta accade. Quando esistenza e racconto si rassomigliano a tal punto da non distinguersi più, quando l’esistenza ha bisogno del racconto per potersi dare una motivazione o almeno una giustificazione, allora accade.
Sì, qualche volta accade. Forse a Daniele Del Giudice è accaduto, e nessuno può sapere se non ne abbia avuto consapevolezza, in qualche istante. Chissà se in qualche istante di consapevolezza non gli sia tornata alla memoria quella pagina in cui diceva di certe frasi lanciate come reti per raccogliere tutto il resto, e che potevano essere tirare a riva e staccate dalla storia e portate via. Chissà se non abbia avuto ricordo di quel personaggio che dice: “Lui sapeva che non avrebbe più potuto accucciarsi tra le parole come un animale nella tana”.
Forse Daniele aveva trovato la coincidenza. Era riuscito ad arrivare al punto in cui la possibilità di esistenza è subordinata alla possibilità di scrittura. Forse aveva raggiunto quella condizione in cui la rassomiglianza fra vivere e scrivere diventa perfetta, e non si distingue più, non si può né si vuole distinguere più.Chissà se non continuava a scrivere, Daniele Del Giudice: lì, nella casa di cura a Venezia. Chissà se non continuava a scrivere, anche senza fogli, anche senza biro, senza una tastiera. Come si fa a sapere se non scriveva ancora, tracciando e lasciando le parole nella sua mente, perché magari quando si raggiunge il punto di coincidenza, quando la rassomiglianza diventa perfetta, nessuno può cancellarla più: nemmeno l’Alzheimer. Come si fa a sapere se non si accucciasse tra le parole come un animale nella tana. Come si fa a sapere.