UN LIBRO PER L’ESTATE

di Antonio Errico
domenica 7 Settembre 2025

Alessandro Piperno, quel tormentato piacere della scrittura

Ma una ragione ci dovrà pur essere se uno comincia che è poco più di un bambino e non smette nemmeno quando si fa vecchio. (Andrea Camilleri aveva 94 anni; Giovanni Bernardini ne aveva 97). Ci sarà pure una ragione se uno ruba il tempo alle persone care, se trascura le faccende quotidiane anche essenziali, se si destina all’isolamento in uno spazio che si compone di un tavolino e una sedia, alla disciplina rigorosa sette giorni su sette, se mentre sta parlando con gli amici si distrae perché improvvisamente gli vengono due aggettivi giusti per un luogo, una frase perfetta, una parola che non ha alternative per un personaggio, una svolta nel racconto che aspettava da mesi. Una ragione ci dev’essere, senza dubbio, se si dà in ostaggio una vita intera alla scrittura, se non si riesce a convincersi che si tratta di una delle cose più inutili che si possano fare, di uno dei vizi più banali, anche se innocuo almeno nei confronti degli altri, di un gioco antico quasi sempre a perdere. Una ragione ci dev’essere. A capirla ci hanno provato in tanti. Inutilmente. Qualcuno forse è riuscito a descriverne la superficie, l’esito, l’effetto. Ma nessuno ha capito quale sia la radice, a scandagliarne la profondità. Per ultimo ci ha provato Alessandro Piperno con un saggio in forma di racconto, o con un racconto che ha la sostanza di un saggio, intitolato “Ogni maledetta mattina” con la specificazione del sottotitolo che dice “Cinque lezioni sul vizio di scrivere”. Senza escludere nessuno dei motivi che probabilmente sono innumerevoli, Piperno ne analizza cinque. L’ambizione, innanzitutto. Che può essere condizione di sviluppo e maturazione dello stile, della forma, del proprio rapporto con la scrittura, oppure gorgo senza fondo, che risucchia nelle sue spire ogni grumo della volontà. Così scrive Piperno. Allora, occorre che l’ambizione si ponga come termine di confronto, come elemento da superare non altri che se stesso. L’ambizione deve avere come finalità concreta, come orizzonte di senso, la qualità della scrittura, considerando la qualità come aderenza perfetta al proprio pensiero, al proprio sentimento. Poi, l’odio, il contrasto, la contesa, la maldicenza serpeggiante, l’insulto, il rancore, la malafede. L’odio storico. Per esempio, quello di Cecco Angiolieri nei confronti di Dante Alighieri. Ma Alessandro Piperno ricorda quello che diceva il grande George Steiner: che cosa comporta essere un poeta con aspirazioni filosofiche quando si ha come vicino di casa un tale come Dante; oppure essere un drammaturgo nella stessa epoca in cui lavora Shakespeare. Però, scrivere costa fatica: il noviziato davanti all’altare della tecnica, diceva Truman Capote, le diaboliche complessità della punteggiatura, del dialogo, “per non parlare della struttura globale, l’ampio arco impegnativo di inizio-centro- fine. Ci sono tante cose da imparare: non solo dai libri, ma dalla musica, dalla pittura, e dalla semplice osservazione della realtà quotidiana”. Già. Scrivere costa molta fatica. Non vale la pena sprecare tanta fatica per l’odio. E’ imparagonabilmente meglio scrivere per amore. Perché, poi, l’odio non porta da nessuna parte. Oppure porta alla depressione, all’annichilimento. Il terzo motivo per il quale si scrive, secondo Piperno è la responsabilità. Allo scrittore si chiede parere su tutto; si chiede di firmare manifesti, appelli, proclami. Si chiede di essere attento, vigile, impegnato. Per sottrarsi alle richieste che arrivano da ogni parte, occorre ad un tempo coraggio e umiltà. Che non di rado si rivelano del tutto inefficaci, com’è inefficace dichiarare di non avere alcuna conoscenza della materia. La prima reazione del richiedente è la delusione, seguita, nel giro di pochi istanti, dalla contumelia. Ma l’impegno e la responsabilità dello scrittore consistono nello scrivere: con onestà nei confronti di se stesso, nei confronti degli altri. Poi, Alessandro Piperno attraversa e indaga i territori del piacere e della conoscenza attraverso la scrittura: Ecco, forse non si scrive – o non si dovrebbe scrivere- di quello che si conosce. Si scrive – si dovrebbe scrivere- per scoprire quello che si considera un mistero, per rivelarsi l’incognito, per comprendere l’incompreso. Forse si scrive per una delle ragioni analizzate da Piperno in questo saggio; forse per tutte queste ragioni insieme. Oppure sarà per quell’altra ragione che una volta spiegò Camillo José Cela: si scrive per una legge di inesorabile fatalità, si scrive perché non si può non si sa e non si vuole fare altro. Lo scrittore scrive per la stessa ragione per cui il fiume scorre, o l’uccello vola o il lupo morde. Semplicemente.

Salvatore Toma, ragioni e passioni di una poesia

Ci sono esistenze che sembrano avere una sola ragione, una sola passione. Con quella ragione, con quella passione si sviluppano, maturano, invecchiano. (Se invecchiano). L’esistenza di Salvatore Toma aveva una sola ragione e una sola passione (e non invecchiò). Scappò via a trentasei anni in un giorno nevoso

di marzo dell’Ottantasette. Eravamo andati a trovarlo a Gagliano, Antonio Verri e io, qualche giorno prima. Non era triste, non era allegro. Guardava lontano. La ragione e la passione dell’esistenza di Salvatore Toma è stata la poesia. Si guardava intorno, certo: ma per rivelarsi la poesia che c’era intorno. Si guardava dentro, certo: ma per ritrovare la poesia che aveva dentro e che qualche volta gli faceva paura. Perché un grande poeta si riconosce soprattutto dalla paura che si fa. Salvatore Toma è un grande poeta: per questo si faceva paura. Adesso, chi volesse avere idea compiuta del percorso poetico di Salvatore Toma, deve necessariamente riferirsi alla raccolta pubblicata cinque anni fa da Musicaos con il titolo “Poesie (1970-1983)” con la cura di Luciano Pagano. E’ da questo libro che risultano evidenti la ragione e la passione di Toma, la sua tensione verso la parola poetica che stringe la relazione con se stesso, con l’altro da sé, con la natura, il sogno, l’immaginario, il senso dell’essere in un tempo, in un luogo, l’istinto di fuga e la scelta di rimanere nei suoi luoghi di sempre, così, solitario ma non solo, il confronto con la dimensione dell’amore e della morte che diventano il rispecchiamento del cielo e dell’abisso, della limpidezza e dell’oscurità, del trasognamento e dell’inconoscibile. Diceva che poeti si nasce e a volte non si finisce. Estremamente. Fino in fondo. Fino all’ultimo respiro che gli passò dentro il petto in quella primavera che portava la neve, lì, giù giù, a Finibusterrae. Lui è nato poeta e poeta è finito. Ci ha creduto. Senza nessuna riserva. Aveva preso la scorciatoia della poesia, pure lui. Quell’indagine complicata, intricata, impossibile, sulla verità dell’essere, pure lui. Ma sapeva che la poesia si può solo tentare, e che quel tentare è una disperazione d’uomo, uno sprofondare in mari o librarsi verso volte di cielo che non si può mai riuscire a dire. Ma quello è il destino. Toma lo sapeva bene. Il destino è il continuo tentativo di dire quello che non è possibile dire. A qualsiasi costo. Anche lui si avvicinava allo stupore: ma in che rari momenti, e a che prezzo. La sua poesia è stata un giocare sincero: “Hai giocato sincero/ perciò ci sei riuscito/ come quando mio fratello dice/ lo sapevo perché me lo sentivo!/( e bocciava tranquillamente/ il pallino)”. Forse è tutta qui, alla fine del conto, la poesia. E’ tutta in un bocciare col cuore di panna e una mano di roccia il pallino del senso del vivere. Quando Toma morì aveva scritto tutto. Anche se pensava ad un altro libro, un altro impasto di sangue e di parole, ad altri graffi sulla faccia dei mattini, sui fianchi delle notti. Anche se pensava ad altre storie d’amore da stringere nella rete dei suoi versi, ad altre sconfinate dolcezze, straordinari furori. Aveva scritto tutto. Perché poeti così, creature così, cominciano senza premesse, finiscono senza conclusioni. Conta soltanto quella ragione, quella passione. Non altro. Conta soltanto trovare la consonanza tra ogni respiro e ogni sillaba, ogni parola. Riuscire a intercettare le pulsazioni del mondo e accordarle a quelle del ritmo di un verso. Così è fatta la poesia di Totò Toma. E’ un “frullato d’aurora/misto a petali di morte”. A volte è nitida, tralucente. A volte è scura, impenetrabile. E’ come il mondo, come l’esistenza: esattamente così. Apparenza e sostanza. Superficie e profondità. Luce e buio. Toma comincia con l’osservazione della superficie e poi affonda, scandaglia, e sul fondo trova tesori, trova relitti, e si stupisce, e si commuove per quello che è più profondo ma che sembra superficie: un gesto d’amore, un fiato d’amore, uno stupore innocente, un fiotto di sincerità, il coraggio di una inaspettata semplicità come una carezza d’amante o il suo furore improvviso. A volte si ha l’impressione che il linguaggio di Toma non abbia mediazione. Ma non è vero. La mediazione del linguaggio si ritrova nel processo dello sguardo che assorbe la realtà per poi restituirla trasformata nell’ azzardo di una poesia che da se stessa pretende soltanto l’arroganza dell’onestà.

Pensieri e parole per raccontare la complessità delle storie

Era un pomeriggio d’estate. C’era una rotonda sul mare. C’era un juke box e un ragazzo di sedici anni. Con cento lire, lo spazio della rotonda si riempì di tre canzoni. La prima era “Perché ti amo” dei Camaleonti; la seconda “Prisencolinensinainciusol” di Celentano. La terza fu l’esito di un errore. Il ragazzo voleva “Questo piccolo grande amore” di Baglioni ma aveva sbagliato il numero e ne cominciò una mai sentita prima che diceva ancora i tuoi quattro assi, bada bene, di un colore solo, li                   puoi                   nascondere                   o                   giocare                   con                  chi vuoi o farli rimanere buoni amici come noi. In quel pomeriggio, il ragazzo scoprì i cantautori. Correva la metà degli anni Settanta. Da quel pomeriggio cominciò a raccogliere tutti i dischi e tutti i libri di e su De Andrè, Tenco, Piero Ciampi, Guccini, Vecchioni, Dalla, Venditti, De Gregori. L’ultimo è una conversazione tra Francesco De Gregori e Antonio Gnoli che s’intitola “Passo d’uomo”. Me lo ha prestato. L’ho letto in due giorni. S’inizia dall’infanzia: da una domanda sul bambino segreto che ciascuno di noi si porta dentro. Perché Gnoli sa che ha ragione Pavese quando nei “Dialoghi con Leucò” dice che abbiamo tutti una montagna dell’infanzia, e per lontano che si vagabondi, ci si ritrova sul suo sentiero perché là fummo

fatti quel che siamo. Tutto comincia lì, in quella sorta di nuvola del tempo. I sogni si accendono in quella stagione. Anche il sentimento del dispiacere. Anche il confronto con i libri, la passione per le parole. Anche il suono dell’armonica a bocca comincia al tempo dell’infanzia. Poi il dialogo – serrato, incalzante- s’inoltra nei territori dei concetti e delle funzioni dell’arte e dell’artista, indaga la valenza che quei concetti e quelle funzioni assumono nei contesti del sociale e della comunicazione, esplora i significati delle parole intellettuale e antittellettuale, si confronta con l’influenza che certi artisti esercitano nei confronti di altri: non solo nella loro espressione culturale ma anche nella conformazione della personalità. Così Francesco De Gregori dice che se non ci fosse stato Bob Dylan sarebbe probabilmente un uomo diverso. Non dice un artista, ma un uomo diverso. Una creatura nella sua compiutezza e nella sua espressione, che si interroga sul senso che hanno le storie a volte trovando una risposta e a volte tenendosi l’interrogazione. Probabilmente è proprio quando non si trovano le risposte, quando le domande restano irrisolte, forse è sulla soglia dell’incompreso, che comincia l’arte, un pensare in modo diverso, un osservare in modo diverso il venire e l’andare delle stagioni, un sentire e dire in modo diverso il piccolo e sconfinato universo che è ciascuno di noi. Forse è sul confine del linguaggio che comincia l’arte. Quando non si è più disposti a dire nel modo in cui si è detto fino a quel punto. Quando si avverte il bisogno o si insinua il pensiero di una parola che sia pronunciata diversamente. Quello di De Gregori è un linguaggio complesso. Lo si è sempre detto. A volte considerando la complessità come vizio, a volte come virtù. Ma quella è stata e rimane la sua cifra, si potrebbe dire anche il suo stile, attribuendo però a questo termine lo stesso significato che dava Georges-Louis Leclerc, conte di Buffon, quando diceva che le style est l’homme même. Dice De Gregori che gli accade di rimpiangere il fatto di non essere mai riuscito a scrivere una canzone veramente semplice. Neanche quando è semplice il pensiero, perchè poi la progressione degli accordi, le atmosfere che si elaborano nella mente, trasformano la semplicità del pensiero in complessità dell’espressione linguistica. A volte si è chiesto se quella complessità risultasse davvero necessaria, se quello che ha raccontato in un modo poteva essere raccontato in un altro modo, più semplice. Ma le storie scelgono certe parole, non altre. Pretendono quelle parole, perché rappresentano la loro sostanza. Le storie rifiutano le parole che possono tradire l’inevitabile complessità. Si potrebbe fare riferimento a Roland Barthes, quantomeno e per esempio, alle sue forme del discorso amoroso. Allora, se qualcosa rimane tra le pagine chiare e le pagine scure è perché è dentro l’oscillazione delle parole di quella frase che si addensa tutto il senso di un amore tramontato. Almeno così sembrò al ragazzo che per errore fece venir fuori quella canzone dal juke box, un pomeriggio d’estate che il sole cominciava a inabissarsi. Cinquant’anni fa. Soltanto ieri.

Verri e la ricerca della bellezza

Ritorno tra i libri di Antonio Verri che Kurumuny ha ripubblicato, come quando si ritorna in un luogo conosciuto così tanto da poterlo attraversare anche al buio. Mi fermo sulle pagine di “Bucherer l’ orologiaio”. Pensammo di pubblicare questo libro, Aldo Bello e io, una sera che stava per venire il Natale del Novantaquattro. ( Aldo se n’è andato nei giorni di un altro Natale. La prima edizione si apre con tredici pagine e mezza scritte come sapeva scrivere lui: lucidamente incantato). Antonio Verri mancava da venti mesi, quasi. “Bucherer” è un libro sulla Grazia, sulla Bellezza, sul Grande Silenzio.

Tutte le forme, tutti gli oggetti, tutte le parole, servono soltanto per accostarsi, per accordarsi, alla Bellezza.

Qui Verri riesce a raggiungere il suo grado più alto di astrazione narrativa, a portare a compimento il processo di identificazione con la scrittura. Qui riesce a combinare nella narrazione tutta la tensione stremante che c’è nella “Betissa”, la magmaticità dei “Trofei della città di Guisnes”, il sentimento leggero del “Fabbricante di armonia”, ottenendo un effetto di visionarietà sbalordente.Per molto tempo lavorò a questo libro, in una strana condizione di calma impaziente, riscrivendo molto.

“Bucherer” è una scrittura allo stato puro, in cui ogni particolare della struttura, ogni elemento del lessico, ogni espressione di sintassi, trovano motivazione, giustificazione, ragione, senso, funzione, in quanto e fin quando risultano coerenti con il processo di ricerca della forma assoluta.

Non c’è stato libro di Verri, non c’è stata frase, sintagma, parola, e prima ancora non c’è stata idea che

non siano state richiamate insistentemente, attratte irresistibilmente, dalla forma assoluta. La forma assoluta era teoria e ossessione.

La forma assoluta era progetto accurato, meticoloso, costruzione portata avanti con un lavoro senza riposo, era ragione rigorosa e massa di sensazioni confuse, era ricerca disciplinata e insonnia che arroventa gli occhi. Il pensiero contempla già la forma, a quella forma deve aderire il testo, regolandosi, modellandosi, adattandosi, fino ad associarsi, perfettamente. La sensazione di un continuo movimento del testo che si avverte leggendo qualsiasi passo di un qualsiasi libro di Verri, la constatazione dell’assenza di qualsiasi staticità, sono provocate proprio dalla necessità di rappresentare la fluidità del passaggio delle parole nella forma elaborata dal pensiero.

Il senso è determinato da questa adesione, dal combaciamento, dalla coincidenza.

Il senso è dato dal processo di assimilazione del testo nel pensiero, delle parole nella forma.

Per Verri, la forma assoluta era, ad un tempo, minuscola e gigantesca, proteiforme; doveva avere la capacità di contenere tutto, di assorbire tutto, di trasformarsi in tutto: esseri e cose, realtà e fantasie: le più ardite, le più azzardate.

“Bucherer” è un libro così: che vuole contenere tutto. Ma anche gli altri libri di Verri vogliono contenere tutto: “La Betissa”, “I trofei della città di Guisnes”, “Il naviglio innocente”, vogliono contenere tutto. Hanno l’ansia spossante di contenere tutte le storie, tutte le cose.

Per questa ragione Verri era attratto dagli elenchi. Procedeva per accumulo di parole, di oggetti. Procedeva per espansione di nuclei, di lieviti narrativi.

Non c’è un solo racconto che comincia e che finisce in modo lineare.

Verri disgregava e riaggregava continuamente. Da ogni frammento si generano altri racconti.

Poi tutto si ricompone, trova coerenza, coesione, non di storia ma di testo. Perché Verri non era un narratore di fatti, ma un narratore di parole.

I fatti venivano dopo le parole, erano determinati dalle parole, dall’ordine che prendevano le parole. Era uno di quelli che Cesare Garboli chiamava scrittori- scrittori; uno di quelli che lanciano le parole nello spazio, senza prestabilire dove vogliono che vadano a finire.

Talvolta si può avere l’impressione che le parole prendano un ordine casuale.

Non è così, per niente.

La casualità era pensata, progettata, realizzata; rispondeva alla sua idea che è il caso che regge l’universo

e i destini degli uomini.

Allora il testo doveva rappresentare questo caso; ma il caso non si può rappresentare se non attraverso una ricerca accuratissima. Il ritmo che scorre dentro la scrittura di Verri costituisce la prova di questa ricerca.

Il tempo in cui scriveva “Bucherer” era quello stesso in cui andava dicendo agli amici che non sarebbe vissuto a lungo, che dopo Totò Toma e Edoardo De Candia, sarebbe toccato a lui.

Tutti gli anni Sessanta fra mito e realtà

Forse furono favolosi, oppure forse no. Forse furono realtà, forse furono illusione, furono gli anni del boom, furono quelli dell’emigrazione, avevano colori chiari, scuri, chiaroscuri. Ma furono anni di passaggio verso la modernità dell’Italia, dell’Europa: che probabilmente non sarebbero nel modo in cui sono se quegli anni avessero avuto una fAisionomia diversa. Spesso ritornano nei ricordi di chi in quel tempo c’è stato. A volte si manifestano anche negli occhi di chi in quel tempo ancora non c’era, attraverso l’improvvisa apparizione in soffitta, in cantina, di un 45 giri, un Capitan Miki, un mangianastri, un gettone del telefono, una moneta da cento lire; portano nostalgia con quella canzone di Luigi Tenco che dicevavedrai, vedrai, vedrai che cambierà, forse non sarà domani ma un bel giorno cambierà. Nella notte tra il 26 e il 27 di gennaio del Sessantasette, dalla stanza 219 dell’hotel Savoy di Sanremo, si alzò un urlo silenzioso.

Un colpo alla tempia e un biglietto incastrato nella cornice dello specchio del camerino sul quale c’erano scritte queste parole: “Io ho voluto bene al pubblico italiano e gli ho dedicato cinque anni della mia vita. Faccio questo non perché sono stanco della vita (tutt’altro) ma come atto di protesta contro un pubblico che manda in finale “Io, tu e le rose” e una commissione che seleziona “La rivoluzione”. Spero che serva a chiarire le idee a qualcuno. Ciao. Luigi”.

Gli anni Sessanta furono così: certezza e dubbio, consapevolezza e stupore, incanto e disincanto, sogno di benessere e astratti furori. Erano gli anni che sui muri si scriveva “Siate realisti: domandate l’impossibile!”; “Tutto il potere alle masse popolari”. C’è un libro di Enrico Deaglio, uscito due anni fa, che attraversa tutto il decennio. Si intitola C’era una volta in Italia. Gli anni Sessanta. Sono seicento pagine ma non si devono leggere necessariamente una dopo l’altra. Si può aprire a caso. Per esempio a pag. 217 si racconta il disastro del Vajont: articoli di giornale, testimonianze. Scriveva Giorgio Bocca che in tempi atomici, si potrebbe dire che si tratta di una sciagura pulita, gli uomini non ci hanno messo le mani, tutto è stato fatto dalla natura, che non è buona e non è cattiva, ma indifferente. Non c’era niente da fare, non ci sono colpevoli. Ecco. Forse è uno dei colori chiaroscuri degli anni Sessanta. Poi, sempre per esempio; La dolce vita, il terremoto del Belice, la battaglia di Valle Giulia, quella poesia di Pasolini schierato dalla parte dei poliziotti, La lettera a una professoressa di Lorenzo Milani, l’autunno caldo, la Piaggio che mette sul mercato il mitico Ciao: 70 chilometri con un litro di miscela (con il 2), al prezzo di

54 mila lire, la Nazionale che perde uno a zero con la Corea del Nord, l’alluvione di Firenze e gli Angeli del fango. Chi è nato in quegli anni ricorda. Chi non è nato in quegli anni ha saputo. Chi ricorda, di tanto in tanto sente sulla pelle la spina pungente della nostalgia. Sono stati anni di passaggio, di confine. A volte il tempo è stato bello, a volte brutto. Il 27 marzo del Sessantatrè al cinema Barberini di Roma, va in scena l’anteprima di un film monumentale: il Gattopardo, adattamento del romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, prodotto dalla Titanus per un costo di 3 miliardi di lire. Anni Sessanta. Autostop, capelloni. Il giovane Holden, romanzo picaresco dell’invisibile Salinger. Il sorpasso di Dino Risi. Forse lo schianto dell’auto sulla scogliera di Calafuria dopo un sorpasso azzardato, è la metafora di quello che sarebbe potuto accadere al Paese dopo anni di boom e di euforia. Le pagine del libro di Deaglio sono come fotografie che riemergono dalla profondità di un cassetto e restituiscono il sorriso di una persona che ci appartiene, alla quale apparteniamo, che era così diversa da com’è che quasi quasi non si riconosce, e riportano i colori dei sentimenti, certi entusiasmi, certi tremori, certi mattini al mare che si era appena alzata l’alba, certe sere che sconfinavano nella notte e le notti che non finivano mai. Però, in quegli anni noi si era bambini. Quello che diciamo proviene dalla mitologia e dalle narrazioni che abbiamo letto, ascoltato. Il libro di Deaglio non si fa sedurre da quella mitologia. Cerca la Storia e ad essa si attiene con misura e con rigore. Ricuce, ricostruisce. Qualche volta giudica, perché le stagioni che sono passate e la valutazione degli eventi senza il coinvolgimento delle emozioni, consente anche di giudicare. Onestamente.

Andrea Camilleri: un ricordo, una sera

La voce arrochita che pareva provenisse dall’antro di una antichità misteriosa. Le parole scandite che s’inchiodavano nell’aria. Le mani che si aprivano e si congiungevano. Le braccia che si stendevano ad abbracciare la sera, e poi si appoggiavano sul petto, come per cercare un riposo. Il suo volto che sembrava scolpito nella pietra. Gli occhi coperti di buio per scrutare oltre il buio.

Era l’11 giugno del 2018, quando nel teatro greco di Siracusa Andrea Camilleri diventò Tiresia. Quel

monologo si ritrova in un libretto di 60 pagine. Si legge in meno di due ore.

Diceva Camilleri che a novant’anni aveva sentito l’urgenza di riuscire a capire cosa sia l’eternità. Ma forse l’eternità si può percepire soltanto attraverso l’azzardo di un vaticinio, di una profezia, con l’energia di uno sguardo cieco che trapassa la densa fumaglia del presente e raggiunge orizzonti di verità diversamente impensabili,  e vede una  luce che senza  quella  cecità  non  si può  vedere. La voce vortica nell’aria. Tiresia, l’indovino, colui che, come dice Dante, “mutò sembiante/ quando di maschio femmina divenne/ cangiandosi le membra tutte quante”, quella creatura multiforme fa esperienza dell’azzardo di una profezia, penetra nell’universo scuro dell’incognita e lo attraversa con il raggio di un pensiero che vorrebbe metterci sull’allerta come sentinelle a difesa dei nostri destini.

Andrea Camilleri racconta e riempie il buio con un universo di colori immaginari, fantastici, con un meraviglioso     onirico                  che           in                       qualche                                modo         compensa   il                   suo           sguardo          sbarrato. Lui sa perfettamente che, al principio, non c’è una scrittura ma una voce. Probabilmente è questa la ragione essenziale del suo Tiresia raccontato con la voce. E’ il ritorno all’origine, alla radice, all’essenza della narrazione. Al respiro che si fa una sola cosa con l’aria, con il vento, l’umidore, l’afa, la calura, il silenzio. Al racconto che non è mai definitivamente chiuso, che si rende disponibile alla sovrapposizione delle voci, ad una continua riformulazione, alla contaminazione, al rimando, all’innesto, alle interferenze, alle manipolazioni, che si sfrangia in digressioni, si interrompe, riprende, si dilata, che subordina la sua possibilità di esistenza esclusivamente alla possibilità della memoria. O del sogno. Per esempio: raccontava Camilleri che una volta sognò di trovarsi alla stazione di Milano vestito da clown. Con una valigetta in mano, e gli scarponi da clown, correva per prendere il treno. Sui binari a destra c’era un vagone pieno di clown coloratissimi che lo incitavano a correre. Sui binari a sinistra un vagone di persone normali che applaudivano vedendolo cadere perché pensavano che fosse un numero comico. Chissà verso dove correva Andrea Camilleri nel fondo del suo sogno rigonfio di colori.

Forse correva verso la sua infanzia. Nei sogni accade spesso che si corra verso la propria infanzia.

Per una benedizione e una maledizione, Tiresia poteva scaraventare lo sguardo del pensiero nella nebbia del futuro, e diradarla. Andrea Camilleri non poteva. Nessun essere che sia umano può. Per fortuna. Ciascuno di noi può soltanto affidare il proprio futuro ad un Dio, se ci crede, oppure semplicemente alla buona sorte. In “Amore lontano”, Sebastiano Vassalli ricorda che gli antichi attribuivano ai ciechi una capacità di inventare, di elaborare e di raccontare le storie degli uomini,

superiore a quella di coloro che vedono. Avendo meno percezioni, i ciechi avevano più vita interiore. Erano dei veggenti che sapevano riempire il buio in cui vivevano di figure apparentemente reali.

Andrea Camilleri raccontava e riempiva il suo buio reale con un universo di colori immaginari, fantastici,

con un meraviglioso onirico che in qualche modo compensava il suo sguardo sbarrato.

Chissà se poi non rassomigliasse davvero a Tiresia, l’indovino: con quegli occhi senza alcuna luce, con le sopracciglia che sembravano i cespugli di un fantasioso disegno di bambino. Chissà se Tiresia, l’indovino, non avesse la stessa ironia perforante, lo stesso disincanto nei confronti di se stesso e del mondo tutto intero, chissà se non avesse anche quello stesso malcelato smarrimento nei confronti del tempo che provava Andrea Camilleri.

Alla fine del suo monologo, Camilleri dice: Può darsi che ci rivediamo tra cent’anni in questo stesso posto. Me lo auguro. Ve lo auguro. Nessuno di coloro che hanno vissuto quell’istante si ritroverà, lì, fra cent’anni. Ma alla fantasticheria di uno strabiliante contastorie, di questo sogno si può anche fare concessione.

Tutta la poesia nel gesto di un dono

Tra i molti libri che ha scritto Antonio Prete, non ce n’è nemmeno uno, che sia saggio, poesia o narrazione, in cui non si manifesti la condizione del nostos, del ritorno. Qui. A Sud del Sud. Può accadere in una pagina, una riga, una parola, un’allusione, un riferimento rapido, un’evocazione. Ma accade, in ogni libro. Accade con la memoria di un volto, di una voce, con il richiamo a un odore, un sapore d’infanzia. Non saprei quale libro di Antonio Prete suggerire. Mi verrebbe da dire così: prendetene uno qualunque. A caso. Come capita. Se volete fermatevi sul Convito delle stagioni. Poesia ( con dieci brevi prose): che attraversa il territorio dei ricordi, i tempi come sono stati e a volte come sono, i luoghi come sono stati e i loro mutamenti. E’ poesia dei ritorni, che in questo libro si realizzano attraverso quel linguaggio profondo, quel dialetto con il quale sono scritte alcune delle poesie. Il dialetto è il linguaggio che Prete riconosce come codice genetico, come espressione insostituibile delle ragioni e dei sentimenti sostanziali. Ma soprattutto: è il linguaggio che riconosce colui che lo parla. Ne identifica l’origine, la provenienza, la natura intima. E’ il lessico con il quale si traduce l’essenziale. Poi il libro dice di luoghi vicini e lontani. Di paesaggi, occasioni. Soprattutto dice del tempo e delle creature che nel tempo vengono e vanno, lasciando a chi resta il ricordo di quello che sono state. Prete le rivede, le ritrova nella lontananza che si restringe e le riconfigura, le fa rassomiglianti a com’erano, le restituisce ai loro luoghi: una casa rosa, il roseto di fronte al nespolo, la vigna, i ficodindia, il mandorlo. Tutto accade nel giorno senza tempo di un’assenza, in un punto che non è riva e non è scoglio, che non ha nessuna forma, non ha nessuna luce.

Ma sempre di ritorni dice il Convito delle stagioni. Di certi ritorni che sono apparizioni, a volte aspettate, che a volte invece sopraggiungono improvvise, per raccontare qualcosa con una lingua silenziosa, a fare compagnia discreta, affettuosa. Non dicono niente. Ascoltano. Vogliono sapere com’è che gira il tempo dei sopravvissuti, anche se già lo sanno, perché sanno tutto. Però vogliono sentire il racconto. Vogliono ritornare a vivere in una poesia. Sono assenza che la parola trasforma in presenza. Rispondono al comando – anzi, alla preghiera – del veni foras. Ecco. La parola che compie il miracolo della resurrezione. Anzi, no. La parola che si illude di compiere il miracolo della resurrezione. Perché è davvero soltanto un’illusione: una consapevole ma necessaria illusione.

Molti libri ha scritto Antonio Prete, si diceva. Ma ce n’è uno che non scriverà mai: che non potrà scrivere mai. Che nessuno potrà scrivere mai. E’ un libro che ha il vento nelle sillabe, la musica del mare nelle vocali. Nelle pagine ha profili di volti, tra le righe ha gli odori di un paese, tra le parole il suono della lontananza. Comincia con una parola che è anteriore alla prima parola; ha la riserva di una parola che arriva sempre dopo l’ultima parola, ha una lingua innamorata di tutte le altre lingue, costellazioni nella sua punteggiatura. Un libro mai cominciato. Un libro per sempre incompiuto. Prete non scriverà mai un libro così. Nessuna scriverà mai un libro così. Ritorna alla memoria il finale della Lettera di Lord Chandos in cui Hugo von Hofmannsthal dice che la lingua in cui gli potrebbe essere concesso non solo di scrivere ma anche di pensare, non è il latino, né l’inglese, né lo spagnolo, né l’italiano, ma quella lingua di cui non conosce una sola parola, quella in cui le cose gli si manifestano e con la quale, un giorno, cercherà di rispondere ad un giudice sconosciuto.

Convito delle stagioni, lo si deve leggere dalla prima all’ultima poesia. Comprese le note. Perché da una nota si può comprendere che cosa siano la generosità, la solidarietà, l’altruismo nella loro concretezza, nella loro essenzialità. Per esempio: nella nota n. 100 si dice che secondo una tradizione raccolta nel Talmud, dopo la mietitura si usava lasciare ai margini del campo un covone, apparentemente abbandonato ma in realtà destinato a chi non aveva pane per nutrirsi. Essere per l’altro, incontrarsi con l’altro, soltanto con un gesto, un dono che forse non si saprà mai chi lo ha lasciato, che forse non si saprà mai chi lo ha ricevuto. Chissà se poi, dopo tutte le parole e alla fine di ogni conto, non si stringe nel gesto di un dono tutta la consistenza della poesia.

I Quasi adatti, perché leggerlo può cambiare la nostra vita

Molti conoscono Il senso di Smilla per la neve di Peter Hoeg, quantomeno per la versione cinematografica che ne ha fatto Bille August nel 1997. Ma probabilmente non sono in tanti, o forse sono davvero pochi ( e spero di sbagliarmi), quelli che hanno letto “I quasi adatti”. Un capolavoro. “ I quasi adatti” è un romanzo sul tempo: sulle sue espressioni e sulle sue contraddizioni, come quella principale, strutturale, del tempo lineare e del tempo circolare.

Il tempo lineare – dice Hoeg- deve essere immaginato come una lama infinitamente grande che sbuccia l’universo e contemporaneamente lo trascina con sé, lasciandosi dietro una striscia di passato infinitamente larga, con davanti il futuro, mentre il presente è il filo della lama.

Per il tempo circolare, invece, il mondo rimane più o meno lo stesso. Le mutazioni intorno a noi sono, o generano, ripetizioni. Poi aggiunge: “Il tempo è anche qualcosa che contribuiamo costantemente a creare. Come un’opera d’arte”.

Noi siamo, dunque, artefici e artisti del nostro tempo. O almeno un poco ci illudiamo di poterlo essere. Forse non c’è un solo istante in cui non si pensi al tempo. Quando sembra che si stia pensando ad altro, lo si pensa in funzione del tempo. Perché, in fondo, siamo un impasto di tempo: con esso ci confrontiamo, ad esso dobbiamo dare conto di quello che facciamo o non facciamo, di quello che siamo, che non siamo, che vorremmo essere, oppure non essere.

Si pensa il tempo passato in ragione di quello che ci ha dato, della felicità o dell’infelicità che abbiamo provato, dell’amore che abbiamo donato e ci è stato donato, delle illusioni e delle delusioni, dei dolori e dei rimpianti, della bellezza della semplicità di pensieri sguardi gesti parole silenzi, della bruttezza dell’artificiosità, di ipocrisie falsità finzioni furbizie malizie, della profondità o della superficialità della nostra memoria.

Probabilmente il passato è la dimensione di tempo che più di ogni altra ci appartiene e alla quale apparteniamo, l’unica sulla quale è possibile riflettere, con la quale ci si ritrova inevitabilmente a confrontarsi.

Il passato è l’unica certezza, in quanto immutabile.

Il presente passa rapidamente, talvolta anche impercettibilmente, nella nostra mente, nei nostri occhi: così rapidamente che spesso non si ha modo di ragionare sulle scelte, sulle occasioni, sugli accadimenti. E’ come un giro di giostra che si conclude sul più bello oppure quando ci si sente stravolti dalla vertigine.

Il futuro non ci appartiene. E’ una dimensione immaginaria, un’ipotesi vaga, un’illusione necessaria, la figurazione dell’ombra del nostro esistere che si proietta nel tempo del non ancora. Eppure si vive elaborando progetti, quindi collocandosi costantemente in quella dimensione immaginaria, cercando di predisporre elementi che possano realizzare le ipotesi che formuliamo quasi come un tentativo di sottrarre il tempo al completo assoggettamento del caso, ad una combinazione di elementi e situazioni che non siamo in grado di decifrare, a coincidenze e a congiunture che non sappiamo comprendere perché non possiamo. Allora si tenta –a volte disperatamente- di governare il tempo attraverso una classificazione, una suddivisione in millenni secoli anni mesi giorni ore minuti. Si inventano sistemi per misurarlo o più esattamente per illudersi di tenerlo sotto controllo: calendari, agende, orologi: abbiamo orologi dappertutto, in casa, al polso, sul cellulare, al computer, sul cruscotto dell’auto, rappresentazioni più o meno consapevoli del nostro senso di precarietà, di finitezza, di provvisorietà, di insicurezza, caducità.

Ci sono libri che quando uno ha finito di leggerli si ritrova esattamente com’era quando ha

cominciato. Si chiamano libri inutili (perché esistono anche i libri inutili). Ce ne sono altri che pagina

dopo pagina, cambiano il tuo modo di pensare il mondo, l’esistenza, la Storia, le storie, di pensare gli altri, se stessi, il sentimento nei confronti della felicità, del dolore, del destino, il senso che ha la tenerezza, il languore della commozione. Sono libri che si aprono uno spazio nella memoria profonda, e rimangono lì per molto tempo, a volte per sempre. Si chiamano libri essenziali. Ecco. “I quasi adatti” è un libro essenziale.

Scoprire chi sono i quasi adatti, perché si chiamano così, qual è il luogo della narrazione, la trama e

l’intreccio del racconto, è un compito che si lascia al lettore. Ne sarà entusiasta.

Quelle 1001 foto d’autore che fermarono la storia

Non è un libro da portarsi sotto l’ombrellone. Proprio no. Si tratta di 960 pagine. Pesa. Ma per qualche serata in cui si riesce a sfuggire al rumore dell’estate che arriva da ogni dove, può andare bene. Benissimo. Titolo: “1001 fotografie da vedere nella vita”, a cura di Paul Lowe con prefazione di Fred Ritchin; versione italiana a cura di Chiara Valentina Mattioli; edizioni Atlante Srl. In queste 1001 fotografie scorrono 150 anni di storia. Ad ogni lettore alcune di esse rimarranno nella memoria, per le più diverse ragioni. Anche per una suggestione, un’associazione. Un richiamo. Per una di queste ragioni, vorrei segnalarne tre. La prima: Una paziente del manicomio della contea di Surrey (1855) di Hugh Welch Diamond. Mi viene in mente un romanzo di Mario Tobino, quella sorta di diario poetico e angoscioso che si intitola “ Le libere donne di Magliano”. Tobino, che fu psichiatra in vari manicomi, voleva dimostrare “ che i matti sono creature degne d’amore”. Che dovevano essere trattati meglio, vestiti meglio, nutriti meglio; che si doveva prestare più attenzione alla loro vita spirituale, alla loro esistenza, al loro essere uomini fatti di carne e di pensiero: anche di un pensiero deragliato. Poi mi torna Alda Merini quando diceva che la follia è una delle cose più sacre che esistano sulla terra. E’ un percorso di dolore purificatore, una sofferenza come quintessenza della logica. Diceva che la follia deve esistere per se stessa, perché i folli vogliono che esista. Poi penso a quel ragazzo di Marradi, internato nel manicomio di Imola a ventun anni, che aveva scritto “ I Canti Orfici”, e alle parole di Frank Drummer, lo scemo di Spoon River, magistralmente tradotte da Fernanda Pivano: “ Da una cella a questo luogo oscuro

/ la morte a venticinque anni!/ la mia lingua non poteva esprimere ciò che mi si agitava dentro,/ e il villaggio mi prese per scemo”. Poi ai girasoli di Vincent van Gogh, malato di confusione, depressione mentale, allucinazioni, che un giorno, dopo un litigio con il suo amico Gauguin, si tagliò l’orecchio sinistro e lo regalò a una puttana.

Poi a Ligabue, al suo smarrimento sconfinato, alla sua inquietudine primordiale e abissale.

Trovo una frase di Franco Basaglia che dice: “ La follia è una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia, invece incarica una scienza, la psichiatria, di tradurre la follia in malattia allo scopo   di   eliminarla.   Il   manicomio   ha   qui   la   sua   ragion   d’essere.” La seconda foto è di Paolo Pellegrin. Tra le migliaia di persone che il 2 aprile 2005 si ritrovano in piazza

S. Pietro per rendere omaggio a Papa Wojtyła, Pellegrin scorge un volto di donna. Gli occhi neri. Lo sguardo profondo, affondato nella lontananza del pensiero. La testa inclinata. Una Madonna da dipinto del Rinascimento. E’ istintivo domandarsi a cosa stia pensando quella donna, a quali tenerezze, quali misteri. A che distanza si trovi dalla salma di Wojtyła, se l’abbia conosciuto quando viveva. Su quel volto si celano interrogativi su sentimenti indecifrati, che appartengono esclusivamente alla solitudine di quella creatura in quell’istante.

Poi l’immagine famosissima del Miliziano colpito a morte di Robert Capa. Foto famosissima e molto discussa. Si disse che si trattava di uno scatto programmato, realizzato a cinquanta chilometri di distanza dal luogo della battaglia. Qualcuno ipotizzò che, sì, il soldato fu veramente ucciso ma le circostanze non erano quelle riferite da Capa. Altri dissero che la foto fu scattata da Gerda Taro, la sua compagna. Però, alla fine, quale che sia la verità, quella foto è diventata un’icona della guerra.

Ecco. Le foto di questo libro sono frammenti della Storia del mondo. Perché, in fondo, la Storia si costruisce cercando di comporre i frammenti, tentando di dare un significato a ciascuno di essi, provando a mettere insieme i frammenti e i loro significati con l’intenzione – o l’illusione- di attribuire all’insieme un senso compiuto e complessivo. Però, poi, rimane sempre quella verità di Eugenio Montale, secondo la quale La storia non si snoda/come una catena/di anelli ininterrotta./In ogni

caso/molti anelli non tengono./La storia non contiene/ il prima e il dopo”. Allora, forse le foto di questo

libro dicono che la Storia è un rovistare tra macerie di frammenti che non hanno un prima e un dopo.

(La rubrica Un libro per l’estate è stata pubblicata su “Nuovo Quotidiano di Puglia” dal 29 giugno al 31 agosto 2025)

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